A casa mia, quando eravamo bambini, la tavola non era un momento particolarmente gioioso. Né particolarmente …goloso. Non ho quasi ricordi della quotidianità dei nostri pranzi e delle nostre cene, fatti spesso di cibi monotoni e dozzinali, dove anche le parole si mescolavano ai silenzi con altrettanta monotonia.
A mia madre non piaceva cucinare quindi non lo faceva. Io non ero una piccola viziata o pretenziosa, ma in cuor mio covavo una innocente invidia per qualsiasi cosa che provenisse dai profumi delle case accanto. Era la voglia di assaporare ciò che c’era fuori da quelle mura domestiche.
Tuttavia c’erano delle occasioni che punteggiavano, come festose ed inaspettate eccezioni, questa triste e piatta routine culinaria e familiare. C’erano le grandi ricorrenze (la Sagra a novembre e la Vigilia di Natale, in cui si imbastivano pranzi e cene dai contorni faraonici, in ricordo delle tradizioni rurali da cui entrambi i miei genitori provenivano ma che soprattutto mio padre si ostinava a voler tenere in vita almeno quelle poche volte l’anno) e c’erano gli arrivi a sorpresa!
A volte era mio papà che cedeva alla tentazione della sua stessa golosità e portava a casa sacchetti di dolciumi comperati in sconto in qualche magazzino, a volte era la mamma che in preda a chissà quale furore domenicale, decideva “Oggi facciamo le lasagne!”.
E poi, una volta l’anno, una sola e non so dire quando, arrivava a casa il bottiglione da 2 litri di latte fresco dello zio in campagna, “appena munto” diceva il babbo, sottintendendo il suo inestimabile valore. Così, come una reliquia, il latte e la sua panna in superficie venivano bolliti e utilizzati per quella che nel mio immaginario è rimasta la torta più buona del mondo.
Non so se esistesse una ricetta, se il papà ne seguisse una o semplicemente gli fossero state date istruzioni a voce. Fatto sta che quella crema di latte dolcissima, il sapore degli amaretti sbriciolati al suo interno, la crosticina dorata che si formava cuocendo in forno: la Torta di Riso era l’incarnazione di ogni mia golosità, di ogni mio voluttuoso desiderio.
Ho provato a cercare per ritrovare quella ricetta, e andando per tentativi ed errori, mi sembra di aver trovato un buon compromesso tra ciò che vive nel mio immaginario e le prove all’assaggio, sapendo che avvicinarsi ai ricordi oltre che difficile, a volte può essere anche doloroso.
Xmery.
non ricordo se sei di Bologna ma lì c’era la torta degli addobbi, una torta di riso tradizionale come la descrivi tu che si cucinava non ricordo per quale ricorrenza (Corpus Domini?).
Che tristezza la descrizione dei tuoi pranzi e delle tue cene.
In casa mia (sia a Roma sia a Bologna) c’era molta attenzione al cibo., l’unico limite era la povertà quindi ci si ingegnava parecchio per mettere a tavola cose gustose badando al portafoglio.
E’ un peccato quello che hai passato perchè poi ci si ricorda delle persone non solo per il carattere e l’amore che ci donavano ma anche per le lorospecialità. Quindi i ravioli di nonna Sestilia,le lasagne verdi di mia madre Vittoria, le sue castagnole, le polpette di zia Marcella.
Mia nonna Sara (ciociara) è morta che ero piccola ma ricordo quando faceva il battuto con il lardo che diventava una crema che lei spostava sul tagliere come un’onda. Anche la nonna Sestilia (bolognese) faceva il battuto tutte le mattine ma senza lardo perchè poi lo metteva nel tegame nel burro e la cucina si riempiva di un profumo meraviglioso.
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hai ragione Marinella!..inevitabilmente, i nostri ricordi sono avvinghiati spesso ai profumi, alle ricette, alle storie che si sono vissute nelle cucine della nostra infanzia, nella giovinezza…e le persone care vivono spesso con questi ricordi che diventano affetto.
Putroppo si perde un bagaglio molto prezioso per le proprie radici quando questo non avviene……ma bisogna cercare di riempire il proprio “zaino” con cose nuove, per non rimanere sprovvisti di cose belle da portere con sè!.. 🙂
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