
(foto presa dal web)
Nella nostra cultura, essere vulnerabili non è un pregio. Essere sensibili è considerato un pericoloso difetto, che ci lascia indifesi e in balìa delle delusioni. E’ opportuno mostrarsi forti, corazzati e inattaccabili. Solo così si ha speranza di risultare vincenti.
E quando il dolore arriva a sconquassare le nostre vite, a sbriciolare i nostri equilibri, a risvoltare la nostra anima come un aratro crudele e indesiderato, zolla dopo zolla, …e non ci si riconosce più, e si languisce in un pozzo di buio da cui sembra impossibile risalire… si reagisce in modo strano. Urliamo il nostro dolore, ma solo dentro. Le ferite profonde sono difficili da mostrare. La sofferenza viva, che ti morde il cuore e ti logora nel corpo, la si tiene per sé, chiusa in una sorta di pudore che sconfina nella vergogna e nel senso di colpa, comunque sia andata.
Un po’ perché sono poche le persone in grado di raccogliere il tuo dolore, averne cura e rimandartelo indietro come qualcosa di prezioso o perlomeno di dignitoso e degno di rispetto. Un po’ perché la nostra cultura non ci insegna a convivere in modo sereno con la possibilità di soffrire.
Il dolore è negato come fallimento. Qualcosa è andato storto, soffrire non è nei programmi di nessuno. Qualcosa si è rotto, …e non doveva rompersi.
Ma non è così.
Soffrire e cadere, e ferirsi camminando… è nella natura del vivere.
Andare nel mondo con armature tali da prevenire ogni dolore significa essere pietra.
Chiudersi talmente tanto da non lasciarsi scalfire dalle delusioni, dagli schiaffi della vita, equivale a non vivere.
E’ cercare di non respirare per evitare contagi e malattie. E’ restare fermi immobili per evitare di inciampare. E’ non offrire le mani in un abbraccio per non rischiare di essere rifiutati. E’ tenere il cuore a guinzaglio, per non esporlo ai morsi del mondo.
Le strategie che mettiamo in atto per difenderci dal soffrire hanno un prezzo molto alto: rinunciare a vivere.
La cultura giapponese ci mostra un altro punto di vista.
Esiste in Giappone una tecnica di riparazione del vasellame di qualità, chiamata Kintsugi. Dalle crepe, dalle scheggiature, dai cocci rimasti si ricostruisce un nuovo oggetto, che nasce dalla combinazione unica e preziosa dei pezzi rimasti, con le venature delle rotture ricostruite in oro e argento.
Le cicatrici anziché essere riparate nascondendole, vengono esposte come nuovo elemento che impreziosisce l’oggetto.
Se applichiamo questa filosofia alla “riparazione” dell’animo umano, ne escono delle implicazioni interessanti.
Che il dolore è un valore! e non un errore in cui, maledizione! si è incappati. Non uno sgambetto cruldele della vita, ma ….la vita stessa nel suo dispiegarsi.
Le esperienze dolorose ci insegnano, ci mostrano i nostri limiti ma mettono anche in evidenza le nostre risorse, moltiplicano le nostre forze, ci svelano cose di noi che non pensavamo, ci rendono dei combattenti, rimodellano i nostri obiettivi… e ne si esce cambiati. Non semplicemente segnati, ma persone nuove.
Come nel vasellame del kintsugi, resta la traccia di ciò che eravamo, una nostra preziosa impronta in cui riconoscerci, ma i nuovi segni danno un valore aggiunto a ciò che siamo diventati. Non sono una cicatrice da nascondere, ma un orgoglio, qualcosa che ci ha arricchito e fortificato, qualcosa di cui andare intimamente fieri.
Ma questa tecnica di ricostruzione suggerisce ulteriori spunti: alle porcellane che vogliamo riparare, impreziosendone le rotture con materiali estremamente costosi come l’oro, va attribuito un valore iniziale molto alto. Quindi se vogliamo intravedere la possibilità di considerare le nostre esperienze fallimentari, le nostre cadute, non come inutili e dolorosi sbagli, ma piuttosto come un’ occasione per ricostruire noi stessi, occorre in partenza avere una buona concezione di sé. Più l’autostima è alta, più si vedrà possibile una ricostruzione di sé che sia accettabile, persino degna di orgoglio. Anche partendo dalle più rovinose macerie si riuscirà a credere di poter ricostruire qualcosa di prezioso, qualcosa che ci somiglia ancora tanto da ritrovarcisi dentro, qualcosa che ci rende migliori di prima, più belli, più forti e valorosi. Dei sopravvissuti, in tutta l’accezione più positiva del termine.
Con una stima di sé zoppicante invece, gli eventi catastrofici che la vita ci mette davanti tendono ad essere letti come conferma delle proprie scarse capacità, della propria ingenuità, scavando solchi ancora più profondi nel senso di colpa e disvalore di sé.
Credere di essere “vasellame di pregio” e che meritiamo di essere ricostruiti con oro zecchino, è quindi forse il primo passo.
Dare valenza preziosa alle proprie ferite, credere che il dolore che ci rivolta l’anima ci regalerà un terreno ricco su cui veder rinascere cose nuove, ci porterà a un diverso atteggiamento.
Non più a chiudersi per evitare ogni delusione, non più ad asserragliarsi in casa per ripararsi da ogni tempesta, non più armature rigide e ferragliose in cui riporre fiducia,….
Negarsi la possibilità di soffrire (oltre ad essere oggettivamente inefficace nel suo scopo!) significa in fondo rinunciare a vivere.
Ciò che resta di noi dopo un uragano, deve essere la consapevolezza che siamo ancora vivi, a brandelli, ma vivi; e che da lì, da quei brandelli ancora vivi, si può ricominciare. Perché ciò che siamo è unico e prezioso; perché quello che ne uscirà sarà altrettanto bello e vivo, e ci somiglierà quel tanto da ritrovare noi stessi.
E’ il dolore che ci urla che siamo vivi, che ci siamo, e che respirare di nuovo è lasciare che il mondo entri dentro di noi.
Occorre ritrovare un bagliore positivo che ci permetta di entrare in contatto con tutte le forze e le risorse che abbiamo dentro, spesso mai viste, o mai utilizzate! Per rialzarci.
Senza paura di cadere di nuovo. Succederà! Ma occorre decidere quanto siamo disposti a mettere in gioco, quanto di noi poter lasciare senza difese e armature, e correre il rischio…. per un sogno da realizzare, per ritrovare se stessi, o (semplicemente!) per essere felici.
Kintsugi: il dolore si ripara con l’oro.
Xmery.